Il voto è la nostra rivolta: cinque sì per cinque referendum

18 Aprile 2025

Valentina Cappelletti Segreteria generale Cgil Lombardia

I referendum dell’8 e 9 giugno, quando ci saranno eventuali ballottaggi delle amministrative e una bassa affluenza al voto, non intendono ripristinare diritti perduti ma, piuttosto, riconoscerli a tutte e tutti coloro che non li hanno. Per questo andare a votare è un gesto concreto per sé e per gli altri.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (Costituzione Italiana, art.2)

La Costituzione Italiana ha posto a fondamento del patto democratico una prospettiva molto chiara, nella quale l’accesso al lavoro in condizioni di dignità, equità e giustizia è al tempo stesso presupposto dell’esercizio pieno della cittadinanza e modo della libera espressione della personalità di ciascuno.  Le forme della organizzazione politica, economica e sociale sono chiamate ad essere coerenti con un principio sottostante di solidarietà che custodisce il segreto della coesistenza. Le lavoratrici e i lavoratori, del resto, attraverso l’esercizio del diritto di sciopero in condizioni di gravissimo pericolo personale, avevano accompagnato la lotta al fascismo e la lotta di Resistenza, fino alla Liberazione. Fondare la Repubblica sul lavoro, significava anche riconoscere questo contributo materiale essenziale.

Il diritto al lavoro, dunque, è sempre, per definizione, diritto nel quale si possa esercitare la libertà del singolo, compresa la libertà associativa; ed è sempre diritto soggetto a una speciale protezione che si realizza attraverso la fissazione di standard inderogabili, cioè sottratti al rischio di concorrenza al ribasso fra chi per vivere ha bisogno di lavorare. Questa impostazione riconosce l’esistenza di uno squilibrio costitutivo tra lavoratore e impresa, una asimmetria di potere, e assume il compito di riequilibrarla attraverso le norme generali a tutela del lavoro e quelle che promuovono le libertà sindacali, fra cui il diritto alla contrattazione collettiva e il diritto di sciopero. Il legame fra libertà e lavoro è dunque un nesso costituente.

A partire dai primi anni Novanta del Novecento e per tutto il periodo successivo, l’affermazione dei principi neoliberali in materia di rapporti economici e sociali è divenuta la prospettiva politicamente egemone. La produzione di norme lungo un periodo che arriva fino a noi e che, naturalmente non ha riguardato solo il nostro Paese, ha assunto le ragioni dell’impresa come punto di vista privilegiato a cui subordinare ogni altro interesse sociale. Le riforme del cosiddetto “mercato del lavoro” e delle sue istituzioni, sono state la fucina in cui si è realizzata la trasformazione di una società che riconosceva l’esistenza della contrapposizione di interessi in una in cui l’interesse generale viene fatto coincidere con l’utilità dell’impresa. Per realizzare questa coincidenza, il valore sociale e politico della forza lavoro doveva semplicemente sparire: è quanto è progressivamente avvenuto. L’erosione di diritti, la costruzione di mercati del lavoro paralleli mettendo in contrapposizione gli insider con gli outsider, hanno creato le condizioni per indebolire drasticamente il potere del lavoro, minare la possibilità della distribuzione del valore che il lavoro comunque continua a produrre, aumentare le possibilità di accumulazione diseguale. Chi lavora senza diritti diventa una commodity, cioè una merce a basso costo facilmente sostituibile.

I risultati sociali di questo processo sono sotto gli occhi di tutti. Lo scambio promesso fra la riduzione delle protezioni lavoristiche e l’aumento delle protezioni sociali non solo non è mai avvenuto ma il collasso di entrambe è stato contemporaneo, anche perché la cultura della mercificazione del lavoro è sempre anche cultura della riduzione del perimetro del welfare pubblico e della cittadinanza. 

Il significato specifico dei cinque quesiti referendari su cui saremo chiamati ad esprimerci nei giorni 8 e 9 giugno non è ripristinare diritti perduti è, piuttosto, riconoscerli a tutte e tutti coloro che non li hanno. Si tratta del diritto ad una efficace protezione contro i licenziamenti che un giudice abbia qualificato come non legittimi, perché senza questo diritto, rivendicare tutti gli altri diventa assai difficile; del diritto a condizioni contrattuali trasparenti nel caso di impeghi con una durata a termine, così da proteggersi dagli abusi; del diritto a poter pienamente chiamare in causa una impresa committente nel caso di un infortunio o di una malattia professionale o di un incidente mortale occorso lavorando in un appalto. Infine, si tratta del diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana in tempi ragionevoli e coerenti con un processo di integrazione già compiuto nei fatti.

Il significato generale dei cinque quesiti referendari è riconoscere che la mercificazione del lavoro e l’indebolimento dei diritti di cittadinanza hanno ammalato la democrazia. La cura non è solo resistere ma è anche lottare per ottenere giustizia. 

Il voto è la nostra rivolta è una proposta aperta a tutte e tutti coloro che credono nella possibilità del cambiamento e lavorano per renderlo possibile. Non è un esercizio retorico. È piuttosto una pratica vitale e collettiva, che risponde alla disumanizzazione con un gesto semplice e abbordabile: andare a votare i referendum e votare cinque sì. 

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