Sulla cittadinanza, un referendum “anti-sovranista”

11 Aprile 2025

Sergio Bontempelli Operatore legale sportelli stranieri

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

L’8 e il 9 giugno i cittadini saranno chiamati al voto su cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza. Sabato 12 aprile parte formalmente la campagna elettorale con l’obiettivo iniziale di raggiungere il quorum.
Il quinto quesito chiede in sostanza che venga dimezzato (da 10 a 5 anni) il tempo di permanenza “sul territorio della Repubblica” per ottenere la cittadinanza: le norme attuali risalgono al 1992 e da allora la società italiana è cambiata.

Sono circa un milione e mezzo i residenti stranieri che hanno in tasca un permesso di soggiorno “per soggiornanti di lungo periodo”, valido cioè a tempo indeterminato: un documento che si può richiedere dopo cinque anni di permanenza regolare e ininterrotta sul territorio nazionale, a condizione di avere una serie di requisiti (reddito, alloggio, conoscenza della lingua ecc.). I titolari di questo permesso abitano in Italia da molto tempo – a volte anche da decenni –, spesso hanno figli nati e cresciuti in Italia, e in ogni caso hanno scelto il nostro Paese come luogo in cui vivere, lavorare, costruire relazioni, metter su famiglia, comprare casa, avere dei bambini, invecchiare. Non stiamo parlando dunque di “immigrati” ma di “ex immigrati”: perché la condizione di “immigrato” – come quella di “straniero” – non è eterna, non resta attaccata alle persone come i tatuaggi, o come certe fastidiose cicatrici che ci facciamo da bambini e non se ne vanno più via.

Se guardiamo al mondo della scuola, ci accorgiamo che gli alunni stranieri sono quasi un milione, e ben 600mila sono nati in Italia da genitori non italiani. Qui abbiamo il paradosso di giovani uomini e giovani donne che le statistiche ufficiali classificano come “immigrati”, e che però non hanno mai avuto un’esperienza migratoria in tutta la loro vita (sono nati nello stesso Paese in cui sono cresciuti e in cui studiano). A dir la verità, anche gli altri 400mila alunni “non italiani” sono difficilmente collocabili nella categoria dei migranti: non sono nati sul territorio nazionale, è vero, ma spesso vi sono arrivati in tenera età, quando erano piccoli o piccolissimi, e non hanno memoria di aver vissuto altrove. L’Italia, molto semplicemente, è la loro terra.

Ecco due esempi di “italiani senza cittadinanza”: di persone, cioè, che sono classificate come “altre” e “straniere” dalla Pubblica Amministrazione, e che però nei fatti sono parte integrante del “noi”. Non stiamo parlando di casi isolati né di sparute minoranze, ma di milioni di uomini, donne, ragazze e ragazzi: un’intera fetta della popolazione esclusa dai diritti politici e dall’appartenenza alla collettività nazionale. Questa vera e propria “segregazione giuridica” – difficile definirla in altro modo – è il prodotto due fattori che nel corso del tempo si sono intrecciati e rafforzati a vicenda: una legge sulla cittadinanza vecchia e inadeguata, e un’ideologia nazionalista “sangue e suolo” condivisa da politici, giornalisti e funzionari ministeriali. Un mix esplosivo.

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza risale al 1992: venne scritta e approvata in un periodo storico in cui l’Italia si pensava ancora come Paese di emigranti e non come terra di immigrati. Per la verità, in quegli anni stavano già arrivando lavoratori provenienti dal Marocco, dall’Albania, dalla Tunisia o dal Senegal, e già allora si sapeva che l’immigrazione sarebbe divenuta prima o poi un fenomeno rilevante: non erano chiare, però, le conseguenze di un cambiamento così radicale.

La legge si preoccupava di tutelare i connazionali che vivevano all’estero, e per questo garantiva un’applicazione molto estesa del principio di discendenza (il cosiddetto “ius sanguinis”): tutti i bambini nati in altri Paesi, se avevano familiari o avi italiani, diventavano a loro volta italiani. Per gli immigrati residenti nello Stivale, invece, i meccanismi di acquisizione della nazionalità erano astrusi e farraginosi: chi nasceva sul territorio da genitori stranieri doveva arrivare a diciotto anni prima di poter diventare italiano per “diritto di nascita” (il cosiddetto “ius soli”), mentre lo straniero adulto doveva risiedere ininterrottamente per un intero decennio nella Penisola prima di chiedere la cittadinanza per “naturalizzazione”. Era una norma, insomma, che guardava al passato e non al futuro, agli emigranti e non agli immigrati.

Nulla di strano e nulla di grave: sono moltissime le leggi che, approvate in un determinato periodo, si rivelano inadeguate a fronteggiare le sfide di un’altra fase storica. Sarebbe bastato modificare e aggiornare la norma, introducendo forme di naturalizzazione più ragionevoli, e garantendo la cittadinanza a chi nasceva e cresceva in Italia. Ma qui è intervenuto il secondo fattore che nel corso dei decenni ha inquinato tutto il dibattito, e cioè l’ideologia tossica del “sangue e suolo”. Il “diritto di discendenza” – lo abbiamo visto – era stato pensato per mantenere un legame tra la Repubblica e la sua diaspora: accordare la cittadinanza ai figli e ai nipoti degli emigranti significava cioè assicurarsi che le comunità italiane all’estero rimanessero in contatto con la madrepatria. Negli ultimi decenni, però, questa esigenza “pragmatica” ha lasciato il posto a una concezione familistica e razziale della nazionalità: si è cominciato a dire che “è italiano chi ha sangue italiano”, cioè chi può “vantare” (si fa per dire) una discendenza da avi italiani. Tutti gli altri – gli stranieri residenti da lungo tempo sul territorio, e i bambini nati in Italia da genitori immigrati – sono e devono rimanere stranieri, salvo casi eccezionali e sporadici.

Intendiamoci: questa ideologia “sangue e suolo” non è una novità in senso assoluto. L’Italia è pur sempre il Paese che ha approvato le leggi razziali antiebraiche del 1938, e altre leggi razziali troppo spesso dimenticate, quelle dell’Impero coloniale (in cui i nativi furono esclusi dalla cittadinanza della madrepatria). All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il fascismo era stato sconfitto, e la Repubblica si era data una Costituzione democratica ed egualitaria: eppure, nei recessi profondi dell’immaginario collettivo una certa immagine razzializzante dell’italianità ha continuato a circolare per decenni. Ed ecco il problema: negli ultimi tempi, questa immagine ha conosciuto una nuova fortuna, ed è entrata prepotentemente nel dibattito sulla cittadinanza. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando la campagna nazionale “l’Italia sono anch’io”, e alcune forze del centro-sinistra, hanno proposto di allargare le maglie dello “ius soli” in modo da tutelare i minori nati in Italia. La reazione del centro-destra è stata virulenta, e ha fatto emergere quell’immaginario razziale che sembrava definitivamente sepolto.

Non basta. Intimorite dall’aggressività dei loro avversari, e timorose di perdere voti, le forze di centro-sinistra hanno finito per modificare le loro argomentazioni, e per introiettare loro stesse un immaginario nazionalista. Molti commentatori e leader politici hanno cominciato a dire, per esempio, che la cittadinanza presupporrebbe la condivisione di una lingua e di alcuni “valori”: secondo questo ragionamento, chi vuol essere italiano deve parlare italiano, e deve aderire a una non meglio definita “cultura nazionale”. Può sembrare un discorso di buon senso, ma è in realtà un pericoloso scivolamento verso quell’idea di “omogeneità etnica”, che è in fondo il pilastro di ogni nazionalismo escludente e aggressivo.

È un’idea, oltretutto, che introduce una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di un’identità, di una cultura o di presunti “valori” comuni. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua “italianità”, la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non parla bene italiano, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita “da straniero” (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà a essere giuridicamente un cittadino. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli immigrati: è un modo per ribadire la loro presunta “diversità”.

La cittadinanza andrebbe svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama “fondata sul lavoro”, dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano (e con le tasse che paga allo Stato) contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta “omogeneità” non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni. Non c’è affatto bisogno di essere tutti uguali – di far parte della stessa presunta “etnia”, di avere gli stessi presunti “valori” o la stessa presunta “cultura” – per essere un corpo politico capace di auto-governarsi: la democrazia è la convivenza e la convivialità delle differenze, non l’omogeneizzazione forzata dei governati.

Il quesito referendario su cui siamo chiamati a votare l’8 e il 9 Giugno non interviene su questo insieme così ampio di problemi, e si limita a modificare  – come sempre accade in un referendum – una specifica disposizione di legge: il requisito di dieci anni di residenza ininterrotta sul territorio nazionale, necessario per richiedere la cittadinanza. Se vincono i SI, questo periodo verrebbe portato a cinque anni, cioè al tempo previsto da quasi tutti gli altri Paesi europei. Si tratta di una piccola modifica, certo, che però manderebbe un segnale importantissimo al mondo politico: gli elettori non tollerano più quella segregazione giuridica che ha ridotto decine di migliaia di persone allo status di “italiani senza cittadinanza”; e sono disposti, finalmente, a ragionare di una riforma più complessiva delle norme che regolano l’appartenenza alla collettività nazionale. Sarebbe, insomma, un primo passo per rimettere in discussione quel nazionalismo escludente e aggressivo, che ha pervaso il dibattito politico negli ultimi decenni.

Sergio Bontempelli lavora nell’ambito della tutela legale dei migranti. Attualmente dirige gli sportelli per stranieri nei Comuni della Provincia di Pistoia per conto della Cooperativa ARCA. È Presidente dell’Associazione Africa Insieme di Pisa e membro di Adif-Associazione Diritti e Frontiere.

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