SOS contro un’emergenza legislativa antiumanista e non femminista

18 Marzo 2025

Massimo Donini Ordinario di diritto penale

Panchina rossa contro le violenze

Il reato di femminicidio c’è già e quello annunciato dalla maggioranza di centrodestra, in occasione dell’8 marzo, è un delitto populista e simbolico e discriminatorio dei generi.

Occorre spiegare perché il reato di femminicidio c’è già, nei contenuti adeguati ai dati criminologici nazionali, ed è scritto in forma di un diritto uguale e non discriminatorio, a differenza dell’ipotesi formulata nel recente Ddl governativo, che appare espressione di un populismo penale di pura propaganda, che dissimula un antiumanesimo legislativo. È famosa la frase di Ortega y Gasset, per il quale nell’Università si riflette su idee che decenni più tardi sono oggetto di discussioni nelle pubbliche piazze. Anche per il femminicidio è stato così: materia di riflessioni criminologiche negli anni ’90 del secolo scorso, da parte di studiose femministe o del femminismo (Marcela Lagarde e Diana Russell), le quali hanno coniato il termine, che si è poi affermato a livello legislativo in numerosi Stati dell’America Latina.

L’analisi gender oriented dei crimini contro donne e lesbiche, per es., ha consentito di descrivere davvero le forme di discriminazione, violenza, controllo dell’uomo sulla donna fino all’uccisione della donna “in quanto donna”, ricomprendendo in questa connotazione sia gli omicidi misogini, sia quelli sessisti: il femminicidio a seguito di stupro, quello razzista, l’uxoricidio, il femminicidio di prostituta, il delitto d’onore, il lesbicidio, il femminicidio pedofilo, quello con mutilazioni genitali, etc. Sul piano criminologico vi rientra anche la “morte in vita”. Nelle condotte misogine si ricomprendono per es. i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, ma anche quella educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale1.
Sono tante forme di discriminazione che gravano sull’essere donna ben prima del femminicidio in senso stretto, ma fanno parte della “cultura” nella quale matura questo delitto. I numeri delle uccisioni di donne in America Latina sono impressionanti e per questo è sorta in quel contesto l’esigenza “culturale” di contrastare anche mediante il diritto penale una situazione di intollerabile compressione dei diritti umani. Non si sa ora quante uccisioni si sono evitate incriminando il femminicidio con pena più grave dell’omicidio comune, ma certo si è contribuito alla crescita di una consapevolezza collettiva di valori, disvalori, a una diversa attenzione sociale, pubblica e privata, verso i diritti delle donne. I risultati peraltro, nei decenni, lasciano comprendere che la prevenzione generale positiva (educativa) e negativa (intimidatorio-punitiva) ha costruito un tessuto sociale meno brutale e crudele, con diminuzione dei fenomeni più aberranti. L’esempio mondiale dell’inferno di Ciudad Juárez, la cittadina tra il Messico e gli USA teatro di omicidi sessisti seriali di centinaia di donne all’anno, oltre alle migliaia di donne scomparse tra gli anni ’90 e i primi dieci anni del XXI secolo, ha costituito solo un esempio estremo, con descrizioni cinematografiche e letterarie (Bolaño), di una realtà comunque impressionante nei numeri. I nostri poco più di 300 omicidi dolosi all’anno (in maggioranza a vittima maschile) sono numericamente una esiguità rispetto agli oltre 30.000 omicidi in Messico nel 2024 o agli oltre 400 omicidi annuali nella sola città di New York (dato del 2023).

Ora, in un contesto culturale e sociale come quello di molti Paesi del Centro e Sud America, che hanno statistiche non lontane da quelle del Messico, la presenza di una forte componente discriminatoria, sessista, violenta contro le donne giustifica o comunque spiega un’operazione legislativa di costruzione (in anni passati, invero) di un delitto autonomo di femminicidio2. Certo, si tratta di vedere quale carattere di determinatezza abbia il ricorso frequente alla definizione legale del reato come uccisione di una donna “a causa della sua condizione di donna” da parte del marito, ex marito, compagno o ex compagno, oppure in determinati contesti di relazioni, ovvero per misoginia, o con disprezzo del corpo della vittima etc. Sono numerose le definizioni che presentano aspetti problematici. Ma prima di discutere di una legittimità formale in termini di tassatività e precisione, è la sostanza della fattispecie che deve essere valutata. Nel quadro nazionale manca il fenomeno criminologico diffuso presente nelle realtà di Paesi come Guatemala, Costarica, Nicaragua, Salvador, Cile, Perù, Messico, Bolivia, dove questa fattispecie è stata introdotta.

Ma non solo. Rispetto alle intollerabili discriminazioni di genere in Italia possiamo dire che il femminicidio è già reato, ed è già sanzionato con la pena dell’ergastolo, mentre la sua prevenzione è realizzata, a livello puramente penale, dal reato di maltrattamenti e da quello di stalking, che costituiscono oggi tra le fattispecie più diffuse a livello processuale e di indagini. Occorre ricordare che nei plurimi interventi legislativi contro le discriminazioni di genere il legislatore è intervenuto finora senza differenziare comunque tra i generi, lasciando che la realtà della discriminazione e delle disuguaglianze venisse criminalizzata maggiormente ma solo di fatto, e non in astratto. È così  che il delitto di omicidio è da tempo (dal 2009: governo Berlusconi IV) aggravato con la pena dell’ergastolo se il fatto è commesso: in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 572 (maltrattamenti contro familiari o conviventi), 583 quinquies (lesioni con deformazioni permanenti al viso), 600 bis (prostituzione minorile), 600 ter (pornografia minorile), 609 bis (atti di violenza sessuale), 609 quater (atti sessuali con minorenne) e 609 octies (violenza sessuale di gruppo); dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612 bis (atti persecutori) nei confronti della stessa persona offesa.

Si tratta delle situazioni più frequenti dove matura il delitto di uccisione della donna, ma non solo della donna, e comunque anche della donna “perché donna”.
Tali regole hanno il pregio, rispetto al femminicidio come nomen iuris, di non differenziare i generi in modo discriminatorio e dunque di essere diritto uguale, applicabile anche a una vittima transgender per esempio3 E hanno il pregio di essere diritto non certo mite, ma neppure indeterminato e ciecamente repressivo.

Nella sostanza, si può dire che il reato di femminicidio esiste già. Però non è pubblicizzato in modo nominale. Ciò che si intende introdurre ora, invece, è un femminicidio come titolo autonomo di reato e a pena fissa dell’ergastolo (non come semplice aggravante dell’omicidio).
Si tratta, in sostanza, di un delitto populista e simbolico che: a) non ha una base criminologica adeguata nella realtà nazionale, b) differenzia ingiustamente tra i generi, c) aggrava senza nessuna necessità pene già elevatissime.

Purtroppo, occorre dire che il giornalismo nazionale ha così propagandato il termine femminicidio, anche fuori luogo, adottandolo per ogni caso di omicidio di vittima di genere femminile, da suscitare l’aspettativa di una prevenzione e repressione penale del tutto “particolare” e aggravata per questo reato anche al di là delle basi criminologiche proprie sulle quali è sorta la sua codificazione a livello internazionale. Si è da tempo creata l’aspettativa di un reato nuovo e finalmente risolutivo (sic) di un fenomeno che in realtà neppure veramente esiste (nei termini sopra detti, si noti, senza equivocare).

In termini statistici abbiamo visto che la realtà italiana è del tutto incomparabile con quella dei Paesi del continente americano, per esempio, e ha un tasso tra i più bassi in Europa (consuntivo della Direzione centrale della polizia criminale, Roma, 30 dicembre 2022, quanto agli omicidi).

Capisco dunque, che Giovanni Fiandaca (Il Foglio, 13 marzo) inciti i professori di diritto penale, con diversi argomenti, rafforzati dai dati che qui si ricordano, a prendere posizione contro la progettata riforma nel quadro più generale di un modo di fare legislazione penale privo di basi empiriche, del tutto simbolico e populista. Mi auguro che questa sia compresa come un’occasione favorevole per farlo: il femminicidio, come detto, anche solo inteso in un significato debolissimo come uccisione di una donna (non in quanto donna, dunque), resta fenomeno che allarma moltissimo l’opinione dei media al di là della realtà statistico-criminologica comparata nazionale e internazionale, ed è pertanto prevedibile una politica corriva a ogni aggravamento di pena, del tutto trasversale ai governi che hanno praticato simili trends in tutte le riforme penali. Si tratta, anche qui, di allarme “gonfiato” dalla stampa e dalla politica, patologia generale dell’informazione penale in Italia.

Si dovrebbe invece realizzare davvero un revirement, anche a sinistra. Perché “non basta l’ergastolo”, in questo clima, occorre un ergastolo aggravato, “vero”, manifesto del penale più duro, di un giudicare che esclude per sempre la persona. Ogni attenuante, secondo la riforma prospettata, non potrà mai diminuire la pena sotto i 24 anni in concreto (ciò che oggi, invece, è possibile).

Basterebbe, secondo il disegno, non solo l’uccisione di una donna in quanto donna, come atto di discriminazione o di odio, ma anche “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”: finalità ben presenti in tanti normali omicidi.

Se già l’idea di una uccisione della donna (ma anche di un omosessuale, di una lesbica, o di un maschio) “in quanto tale”, non è priva di manipolabilità applicativa in una realtà diversa da quella d’origine o da una patologia vera, tale da esigere di entrare nella mente e nella psiche dell’omicida oltre i limiti naturali e giuridici del diritto processuale penale, la riforma pensata seleziona requisiti che presentano una assoluta normalità, e che dunque non caratterizzano neppure il fatto di quella gravità criminologica che potrebbe giustificare una sua introduzione. Ma il disegno è del tutto aggravante anche per il diritto penale dell’omicidio e per i maltrattamenti, rivisitati con picchi sanzionatori mai conosciuti nella legislazione passata. Il penalista deve evidenziare una estensione simbolico-repressiva del diritto penale populista quale dimensione ordinaria della politica governativa, già rimarcata in numerosi commenti alle riforme degli ultimi due anni, che hanno conteggiato una cinquantina di nuovi reati (spesso solo con aggravamenti di fattispecie già esistenti). Non si tratta dunque di contrastare una novità, ma l’esempio forse più eclatante di una sottocultura dominante antiumanista: il vero utilizzo dell’uomo (anche se delinque) come mezzo e non come fine, chiedendo finalmente l’appoggio dei media più illuminati e non complici.

Scriveva Karl Ferdinand Hommel, il “Beccaria tedesco”, che «chi stabilisce per i crimini pene più dure di quelle che richieda la necessità, è un assassino».

Questa richiesta di contrastare una politica, e non solo un disegno di legge, è un SOS non per le donne, ma per noi tutti.

  1. cfr. B. Spinelli, Femminicidio: dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, 2008 ↩︎
  2. Rassegne utili nei libri di E. Corn, Il femminicidio come fattispecie penale, Ed. scientifica, 2017, e F. Macrì, Femicidio e tutela penale di genere, Giappichelli, 2018 ↩︎
  3. Su queste riforme v. A. Merli, Violenza di genere e femminicidio, Esi, 2016 ↩︎

Professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Roma – “La Sapienza”.

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