Il villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam è una comunità intenzionale di ebrei e palestinesi cittadini d’Israele e fu fondato all’inizio degli anni Settanta dal domenicano Bruno Hussar, figura-chiave del dialogo ebraico-cristiano. Sulla base dei propri ideali, NSWAS ha creato alcune istituzioni educative quali la scuola primaria bilingue e binazionale (la prima sorta in Israele), la Scuola per la pace (sfpeace.org), che lavora sull’educazione al dialogo con giovani e adulti, e il Centro Spirituale Pluralista di comunità.
Pubblichiamo due brani tratti da altrettanti capitoli del libro “Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam” di Giulia Ceccutti (ed. In Dialogo, marzo 2025), con prefazione di Nello Scavo e il contributo di Brunetto Salvarani.
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Un percorso da fare insieme
di Ariela Bairey Ben Ishay, Presidente dell’Associazione delle istituzioni educative
Sin dall’inizio della guerra, come comunità abbiamo intrapreso le varie fasi di un intero processo di dialogo intergruppo e comunitario. Siamo passati da incontri in gruppi separati per ebrei e arabi a un dialogo congiunto, con l’obiettivo primario di condividere ciò che stava accadendo a ciascuno di noi e come ciascuno di noi stava affrontando la situazione, la guerra e il suo impatto sulle nostre vite e sul nostro lavoro. Le persone hanno fatto emergere i propri sentimenti, paure, preoccupazioni e aspirazioni. Ciascuno, com’è naturale, sentiva un forte le game e una profonda responsabilità nei confronti del proprio popolo. Alcuni sono stati in grado di guardare oltre e di esprimere preoccupazione ed empatia per le paure e le sofferenze dell’“altro”.
È stato molto faticoso. (…). Noi siamo in qualche modo il riflesso di ciò che accade all’esterno. In Europa, negli Stati Uniti e nel resto del mondo i sostenitori di ciascuno dei due popoli sono molto polarizzati. Se si è pro-Israele, significa che si è anti-Palestina. Se si è a favore della Palestina “dal fiume al mare”, significa che si è contro gli ebrei o contro Israele. Il nostro obiettivo a Neve Shalom Wahat al-Salam è invece quello di provare a essere in grado di sostenere con convinzione la propria comunità di appartenenza, ma allo stesso tempo mantenere spazio, consapevolezza, empatia e preoccupazione per ciò che accade all’altra parte, all’altro gruppo. Questo – lo sappiamo bene – non è la realtà esterna. È molto, molto lontano da quella realtà.
Ma la polarizzazione che vediamo ovunque ha influenzato anche la nostra comunità, dove resta difficile perseverare nel tenere insieme le ragioni, le esigenze, le preoccupazioni di entrambi i gruppi. Eppure, credo che questo sia il nostro obiettivo e ciò che stiamo facendo dall’inizio della guerra: aiutare attraverso il processo di dialogo e assumerci la responsabilità dei bisogni di entrambi i popoli cui apparteniamo.
Non è sempre facile farlo quando si è molto coinvolti a li vello personale. Io, ad esempio, ho perso tanti amici e col leghi nel massacro del 7 ottobre. Ho molti amici e colleghi ebrei evacuati dalle loro case e con membri della famiglia dispersi tra gli ostaggi. Ho anche amici e vicini palestinesi che hanno perso un alto numero di parenti stretti nei bombardamenti a Gaza e hanno innumerevoli amici e familiari sfollati. È terribile. Ed è decisamente difficile, quando si è in lutto, preoccuparsi di ciò che sta passando l’altra parte. Ma proprio mentre ogni parte vive il proprio lutto, bisogna preoccuparsi di ciò che accade all’altra. È un grande sforzo, ma questo è ciò che abbiamo cercato di mettere in atto nella comunità. (…)
Sappiamo che per molte persone – in Israele e all’estero – è importante saperci insieme, sapere che nessuno ha lasciato la comunità a causa del conflitto e che stiamo continuando ad affrontare i problemi restando uniti. Credo che sia fonte di forza e forse di speranza sapere che, da qualche parte, alcune persone credono ancora nel fatto che qualsiasi soluzione arriverà sarà frutto del lavoro congiunto di entrambi i popoli, nonostante le diverse prospettive, nonostante il dolore e nonostante le perdite. Allo stesso tempo, in tutta sincerità, credo che in questo momento sia molto difficile intravedere un barlume di speranza, riuscire a parlare di speranza: ci sono così tanti, troppi, fronti diversi di guerra che si stanno aprendo. Ma il dialogo è stato molto utile e va continuato. Prima di tutto bisogna conoscere cosa sta succedendo e come sta vivendo l’altra parte, quindi rendersi conto dell’enorme divario che ci separa. A volte è molto doloroso scoprire un divario così grande nel modo in cui si percepisce ciò che sta accadendo e nel modo in cui gli amici dell’altro popolo percepiscono e vivono ciò che sta accadendo. Ma parlarne è necessario, perché in nessuna parte di questo Paese se ne parla veramente, e qui al Villaggio è come accostare le due metà del quadro, le due facce della medaglia, e – soprattutto – affrontarle.
Il secondo aspetto del processo di dialogo che abbiamo messo in atto come comunità è stato il tentativo di colmare quel divario, esprimere il senso di frustrazione vissuto da ogni gruppo e provare a tenere insieme queste due frustrazioni. E questo nonostante il fatto che ciascuna parte ritenesse che l’altra riceva informazioni non corrette. I palestinesi sono certi del fatto che agli ebrei israeliani sia stato fatto il lavaggio del cervello e che non abbiano un quadro completo della situazione. Gli israeliani viceversa ritengono che i palestinesi stiano ricevendo un’immagi ne distorta e che non siano abbastanza in grado di comprendere la sofferenza degli israeliani e d’Israele a causa dell’asimmetria del conflitto e dell’occupazione. Ma è necessario, in primo luogo, affrontare sé stessi e assumersi la responsabilità per i pezzi che non si conoscono, sia di sé, sia dell’altra parte. In conclusione, ritengo sia stato fondamentale, durante il nostro processo di dialogo, essere riusciti ad affrontarlo a viso aperto, senza fuggire da questa fatica, senza dire agli altri: «Sapete, non ce la faccio, non riesco ad affrontare né gestire un percorso di dialogo in questo momento». Al contrario, è stato importante discutere, certo a volte animatamente, condividere. Anche condividere la delusione o la sensazione che forse esistono dei momenti in cui non si riesce a tenere insieme il dolore di entrambi i popoli.
La lezione dell’Oasi di pace
Credo che l’insegnamento più significativo che NSWAS ci lascia è che, anche se non abbiamo le soluzioni, siamo convinti che il percorso verso le soluzioni debba essere fatto insieme. In secondo luogo, abbiamo un impegno incondizionato al partenariato: a prescindere da tutto, al Villaggio sappiamo che dobbiamo trovare un modo per capire insieme le complessità in cui siamo immersi. E non arrenderci. Non deve esistere la possibilità o l’opzione della rinuncia. Se la vita insieme non sta funzionando, se è troppo difficile, non si prende e si va via, perché questo è il luogo in cui viviamo, questo è il nostro impegno.
Una delle lezioni che ci auguriamo apprendano non solo i palestinesi e gli israeliani all’interno e all’esterno del Paese, ma anche nel mondo, è che è necessario trovare un modo attraverso i negoziati. Di più. È necessario che quando si percorre la strada dei negoziati, ci si impegni a rimanere fino alla fine, fino a quando non si trovano le soluzioni. Non bisogna ogni volta accampare scuse, ricorrere a frasi come: «Vedete? Dall’altra parte non c’è nessuno con cui dialogare», o «Non possiamo risolvere la questione parlando con Hamas». No. Bisogna sedersi a un tavolo e discutere, provando a vedere quale può essere un piano a lungo termine. Anche se sembra che Hamas non sia impegnato in questo tipo di soluzione. Anche se sembra che un gran numero di palestinesi e un gran numero di israeliani, forse da posizioni molto estreme, sperino nell’annientamento dell’altra nazione e pensino che se si cancella l’altra nazione dalla terra non ci sarà più un conflitto. La lezione di NSWAS è che ci siamo dentro insieme e che tutti, tutti dobbiamo essere parte delle soluzioni da trovare. Tutte le voci devono essere ascoltate e, per quanto sia difficile, dobbiamo impegnarci a non imporre una soluzione agli altri.(…) Va immaginato un futuro in cui entrambi i popoli siano coinvolti e trovata la possibilità che funzioni per tutti. Una soluzione che vada bene solo per una parte non è una soluzione, non solo perché la guerra scoppierà di nuovo, ma perché stiamo cercando anche l’equità e la giustizia. Va perseguita una soluzione che garantisca davvero che entrambe le parti siano al sicuro, si sentano protette e comprendano che la coopera zione è più preziosa della competizione.
Costruire ponti a partire dai più piccoli
di Nir Sharon Co-direttore delle istituzioni educative
Molti oggi in Israele guardano a questa collina come a un villaggio abitato da ingenui: poveri illusi che ancora si ostinano a credere, dopo tutto quello che è successo negli ultimi mesi, che solo il dialogo sia in grado di cambiare le cose. Ciò che ci stiamo infatti sforzando di fare, come comunità, è mantenere aperto il dialogo come base del la relazione tra ebrei israeliani e palestinesi, come strumento per colmare la distanza che ci divide. Stiamo provando, nonostante tutto, a gettare un ponte per superare questo divario che si sta allargando sempre più. Ma, dopo il 7 ottobre 2023, in Israele tante persone di sinistra (o vicine a quell’area politica) hanno smesso, come dicono loro, di «bere l’alcol del fare la pace». Non ci credono più. «Siamo finalmente sobri, dopo esserci illusi per anni», ripetono. Come se credere nel dialogo e in una soluzione nonviolenta del conflitto equivalga a essere ubriachi, a una sbornia da cui, assai dolorosamente, il 7 ottobre ci ha risvegliato. Mantenendo questa immagine, penso invece che noi a NSWAS siamo ancora ubriachi. E molto felici di esserlo. Forse non tutti allo stesso modo, non tutti con lo stesso grado di convinzione e impegno, ma di sicuro stiamo facendo del nostro meglio per non arrenderci, per continuare a credere in ciò in cui abbiamo sempre creduto. Ci riusciamo con l’aiuto dell’educazione alla pace, cuore del nostro lavoro.
(…) All’interno della società israeliana, soprattutto tra gli ebrei, spesso si parla del 7 ottobre come di una sorta di unicum, un dramma completamente diverso da quelli del passato. Senza dubbio in un certo senso lo è stato: è stata una tragedia segnata da aspetti decisamente nuovi. Ma credo vada sempre ricordato che il 7 ottobre non è qualcosa che viene fuori dal nulla: è parte di cento anni di conflitto. Non, quindi, un evento nuovo, anche per la nostra comunità del Villaggio. Abbiamo affrontato due guerre del Libano, due Intifada, le guerre a Gaza, nume rose operazioni militari… Nel 2006 abitavo già al Villaggio, ero un adolescente e ricordo che mi trovavo con un amico palestinese quando all’improvviso è scoppiata la guerra del Libano. Ricordo perfettamente come abbiamo iniziato a parlarne, a discutere, a cercare insieme di “far ci i conti”. Abbiamo una lunga, lunghissima esperienza nell’affrontare e gestire situazioni complicate. È qualcosa che non dobbiamo dimenticare, perché in qualche modo può venirci in aiuto anche oggi.
(…) Credo che NSWAS mostri alla nostra regione e al mondo che vivere insieme, ebrei israeliani e palestinesi, e condividere la stessa società, è possibile. Non dobbiamo nemmeno per forza piacere gli uni agli altri, non è necessario diventare migliori amici: nemmeno noi lo siamo. Ma per vivere insieme è sufficiente avere rispetto, provare a conoscere gli uni gli altri, credere nell’uguaglianza, nella dignità di ciascuno. Essere capaci di vedere che qui ci sono due popoli – uguali e con pari diritti – che vogliono vivere entrambi nella loro terra, è il primo passo. Il primo passo per costruire ponti per la pace.
