Questo articolo di Nadia Urbinati, politologa e membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia, è stato pubblicato su Domani del 27 febbraio 2024.
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Le reazioni dei rappresentanti della maggioranza all’indignazione popolare per la reazione sproporzionata e violenta delle forze dell’ordine contro i giovanissimi manifestanti di Pisa e di Firenze meritano un’attenzione critica. Pronunciate con l’intento di offrire una difesa d’ufficio delle forze dell’ordine, fanno loro un pessimo servizio. Un’opinione che ritorna in diversi commenti suona così: la responsabilità di quanto accaduto è dei “cattivi maestri” (leggi, ‘la sinistra’) che insegnano ai giovani a protestare nelle piazze. Quindi i minorenni picchiati a Pisa e Firenze non sapevano quel che stavano facendo. Secondo Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei Deputati, bisogna rieducarli. “Bisogna pensare a dei corsi di manifestazione per i giovani perché quelli che sono andati a manifestare a Pisa o a Firenze sono giovani che probabilmente erano alla loro prima manifestazione e magari spinti da ‘cattivi maestri’ sono andati contro il cordone di polizia provocando una reazione sulla quale possiamo certamente discutere.”
I “cattivi maestri” devono essere sostituiti da quelli buoni, quelli che, a quanto pare non conoscono, la Costituzione e pensano di educare i cittadini a non dissentire o a manifestare il dissenso in modo tale da “non provocare una reazione” da parte delle forze dell’ordine. È un’osservazione a dir poco infelice, anche nei confronti delle forze dell’ordine. Dipinte come l’alter dei giovani chiassosi e come se la sicurezza si misurasse dalla capacità dei cittadini di non “provocare” i tutori dell’ordine. Che vengono dipinti come cani doberman addestrati ad attaccare, a reagire pavlovianamente a chi li provoca. Ma questa non è un’immagine dignitosa delle forze dell’ordine di un paese democratico.
La rappresentazione dei giovani che scendono in strada e delle forze dell’ordine che li attendono pronti a reagire alle loro provocazioni stride con la Costituzione, che riconosce tra l’altro il diritto di manifestare pacificamente nei luoghi aperti senza autorizzazioni delle autorità sia, dell’etica democratica. Rende un cattivo servizio alle libertà civili di tutti. La domanda che deve stare a cuore ai difensori d’ufficio delle forze dell’ordine è quella posta da Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia: quando il dissenso viene giudicato legittimo?
Vivere in uno Stato democratico non significa vivere in uno Stato non conflittuale: significa vivere in uno Stato in cui la conflittualità cambia nei modi e nelle forme (definite dalla legge secondo i principi costituzionali). In “un regime basato sul consenso non imposto dall’alto, una qualche forma di dissenso è inevitabile, e solo dove il dissenso è libero di manifestarsi il consenso è reale, e solo dove il consenso è reale il sistema può dirsi giustamente democratico”. Dissenso e consenso sono in relazione diretta e permanentemente. Ciò significa che non esiste un’idea di consenso democratico se il dissenso è preventivamente considerato un problema che, non potendo essere evitato, viene contrastato con la forza. Il dissenso non può essere inteso come una forma illegittima da sopportare e da neutralizzare; l’idea che i cittadini debbano essere educati a “non provocare una reazione” da parte delle forze dell’ordine si scontra con la vita civile di uno Stato democratico. Se esiste un “criterio discriminante” tra democrazia e dispotismo, scrive Bobbio, questo è “la maggiore o minore quantità di spazio riservato al dissenso”.
Le forze dell’ordine fanno parte della dialettica democratica, non come guardiani ringhiosi addestrati a non essere provocati.