Place of Safety e la “efficace gestione dei flussi migratori”

07 Luglio 2023

Andrea Pappalardo Consiglio di Direzione Libertà e Giustizia

Questo contenuto fa parte di uno speciale Asap e politiche di riarmo

Place of Safety e l’“efficace gestione dei flussi migratori”: pubblichiamo alcune osservazioni di Andrea Pappalardo, coordinatore del Circolo di Ginevra e avvocato esperto di diritto del mare, in merito alla sentenza del TAR del Lazio N. 10402/2023 del 19 giugno 2023. Il Tribunale amministrativo si era espresso in seguito ai ricorsi di Médicins Sans Frontières contro il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Comando delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera, in materia di assegnazione di porti sicuri ritenuti “vessatori” per l’eccessiva distanza rispetto ai luoghi di soccorso di naufraghi da parte della nave Geo Barents.

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Nei giorni tra il 4 e l’11 gennaio 2023 e, successivamente, tra il 24 e il 27 gennaio 2023, la nave Geo Barents – battente bandiera norvegese e noleggiata da Médicins sans Frontiéres – effettuava dei soccorsi in acque internazionali, nella zona SAR (Ricerca e Soccorso) libica: chiesto il POS (Place of Safety, luogo di sbarco sicuro), le autorità italiane indicavano rispettivamente i porti di Ancona e La Spezia, così costringendo la nave soccorritrice ad un aggravio di tempi, costi ed energie rispetto all’opzione di una destinazione in porti più prossimi al luoghi di soccorso.

Presentati i ricorsi in sede amministrativa contro tali decisioni, il TAR Lazio si è pronunciato in data 19 luglio 2023 con un rigetto e condanna alle spese, ritenendo validi i criteri applicati da parte delle autorità italiane ai fini delle scelte nell’assegnazione dei porti di sbarco.

Nel testo, i giudici amministrativi si dilungano nell’analisi della definizione di luogo (i.e. porto) sicuro, per evidenziare come la normativa internazionale di riferimento di diritto del mare non espliciti come il luogo di sbarco debba “necessariamente” e “indissolubilmente” coincidere con il porto più vicino, con la conseguente possibilità per le autorità di indicare un porto più lontano in funzione della ragionevole valutazione delle circostanze del caso.

Premesso che la vexata quaestio non è “cosa” sia “un” luogo sicuro, ma – di fatto – “come” decidere “il” luogo sicuro, di volta in volta nel caso specifico, il TAR insiste sull’assenza, nella normativa invocata, del criterio della “vicinitas fisica” tra luogo di soccorso e porto di sbarco, come se non si ravvisasse contiguità, affinità o – spesso – perfino aderenza concettuale tra la prossimità geografica e quella temporale ai fini (dell’esigenza) di un tempestivo sbarco.

Sul punto, infatti, il TAR evita di evidenziare dovutamente come, secondo le fonti internazionali, le operazioni di soccorso si debbano perfezionare con lo sbarco in luogo sicuro nel minor tempo e con la minore deviazione possibile da parte dell’unità di soccorso, e che gli Stati devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista (Convenzione SAR, Capitolo 3, par. 3.1.9; Conv. SOLAS, Cap. V – Reg. 33, par. 1.1).

Non può certo esservi dubbio, infatti, che – pur nel contesto delle circostanze del caso (tra cui, si omette in sentenza, le indicazioni dello stesso Comandante della nave soccorritrice) – un principio cardine della disciplina in materia di soccorsi in mare sia l’assoluta preminenza della tempistica dei soccorsi, che si perfezionano, notoriamente, con lo sbarco non appena ragionevolmente possibile e non appena ragionevolmente praticabile (Conv. SOLAS, Capitolo V – Reg. 33, par. 1.1 – Conv. SAR, Capitolo 3, par. 3.1.9), in modo da arrecare alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile.

D’altronde, senza voler citare la copiosa giurisprudenza (ex multis, il caso Rackete, pure richiamato in sentenza) o le tante fonti normative e di soft law, la Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso menziona puntualmente che le operazioni di ricerca e soccorso in situazioni di emergenza richiedono il coordinamento e lo sbarco rapido in un luogo sicuro […] e che le linee guida dell’IMO impongono alle autorità dello Stato responsabile di compiere ogni sforzo per accelerare le operazioni di sbarco delle persone tratte in salvo.

Il vero nocciolo della questione, dunque, risiede nella seguente domanda: cosa non ha reso “ragionevolmente praticabile o possibile” uno sbarco in porti più vicini, al punto da sacrificare i richiamati principi cardine della disciplina?

Sotto questo profilo, il TAR Lazio fa riferimento alla palesata necessità – in assenza di segnalazioni di urgenza a bordo e date le dimensioni della Geo Barents – di non congestionare alcuni territori affinché il flusso migratorio sia organizzato, equo e sostenibile: in quest’ottica, dice la sentenza, sarebbe stata dimostrata l’indisponibilità dei centri di accoglienza siti nelle zone vicine all’intervento dei soccorsi (zone meridionali del Paese).

Lucidamente, quindi, la decisione piega i capisaldi sottesi alle convenzioni internazionali e, ancor più, alle consuetudini in materia di soccorso marittimo, ad esigenze di carattere amministrativo e logistico legate ad un (dichiarato) affollamento delle strutture di terra più vicine al luogo di soccorso: con la conseguenza, di fatto, di assistere al baratto tra l’assolvimento (mancato) di obblighi previsti da un consolidato ecosistema normativo, giurisprudenziale e di prassi marinaresca, con il pretesto di dover organizzare al meglio il sistema di accoglienza a seguito lo sbarco, e senza alcun minimo cenno alla possibilità – ad esempio – di una gestione logistica “via terra” delle varie esigenze, una volta perfezionati i soccorsi in un porto più prossimo.

Affrontato, a parere di chi scrive, il nodo cruciale, la sentenza merita altresì qualche riflessione sulla (presunta) assenza dell’obbligo da parte dell’Italia di fornire un POS, avendo soccorso una nave battente bandiera norvegese al largo delle coste libiche e quindi in acque extraterritoriali.

Secondo il TAR Lazio, infatti, il primo Stato competente allo scopo sarebbe stato da individuarsi nella Libia: sull’assunto, viene necessariamente da pensare, sfidando ogni frontiera di immaginazione, che si consideri la Libia uno Stato sicuro, tale da poter garantire la necessaria efficienza nelle operazioni di soccorso e tutte le irrinunciabili garanzie in materia di rispetto dei diritti fondamentali.

Ma il TAR Lazio si spinge oltre, ritenendo anche la Norvegia (quale Stato di bandiera della nave soccorritrice) in grado di fornire direttive per l’individuazione del POS, in nome dell’obbligo di cooperazione previsto dalle convenzioni internazionali nonché in quanto titolare della giurisdizione esclusiva in alto mare sulle questioni di carattere tecnico, amministrativo e, in particolare, sociale: sul punto – a parte il Tribunale non spiegare in che modo gli obblighi di soccorso rientrino nel menzionato ordine di questioni (in particolare sociali) – si impongono alcune ulteriori osservazioni.

In primis, anche alla luce delle stesse disposizioni normative citate in sentenza, lo Stato di bandiera non risponde dell’individuazione del POS né, si aggiunge, sembrano lontanamente percorribili delle soluzioni spontanee dello Stato di bandiera (salvo non immaginare il semi-periplo dell’Europa da parte della nave per raggiungere la Norvegia che – fortuna vuole – è costiero).

Sull’argomento, la stessa Corte di Giustizia UE (sentenza dell’1 agosto 2022, caso Sea Watch) ha precisato che, nel caso di operazioni di ricerca e salvataggio, lo Stato di bandiera deve essere informato tempestivamente dal comandante della nave e deve prestare ogni assistenza possibile in collaborazione con gli Stati costieri ma che, in nessun caso, il comandante della nave può essere obbligato a un POS dello Stato di bandiera.

In materia di giurisdizione, invece, non è dato sapere in che misura siano applicabili i richiamati (in quanto asseritamente estensibili al caso di specie) principi della sentenza Hirsi vs Italia, vicenda che riguardava le responsabilità di una nave pubblica (italiana) per un respingimento collettivo effettuato in alto mare; a completamento, si sottolinea poi come, tra le varie responsabilità di uno Stato di bandiera, certamente non possa figurare l’assolvimento di funzioni quali, ad esempio, l’accertamento di status, la registrazione delle domande di asilo o altri adempimenti tipici dei Paesi di (primo) approdo.

Più in generale, infatti, come rilevato anche dal Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO.

Da questo punto di vista, per la verità, lo stesso TAR Lazio fa menzione dell’obbligo dello Stato di primo contatto al coordinamento delle operazioni di soccorso, limitandone tuttavia la portata, poiché l’Italia risulterebbe da anni il Paese con più sbarchi nonché per le rilevanti conseguenze di carattere logistico ed amministrativo (sic!): in altre parole, sembrerebbe giustificarsi la compressione di un obbligo in virtù  di meri motivi di carattere geografico (che costringono l’Italia – per posizione nel Mediterraneo – ad essere necessariamente più esposta al rischio – e al dovere – di provvedere ai soccorsi e curare la prima accoglienza).

Infine, e senza in questa occasione scandagliare improbabili scenari di applicazione dei criteri di ragionamento dei giudici a casi di soccorsi effettuati da unità commerciali, una nota sulla nave definita in sentenza come luogo (temporaneamente) sicuro: il TAR dice (correttamente) che una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro; peccato, però, si ometta che essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative, e che, se anche se la nave è in grado di ospitare in sicurezza i sopravvissuti e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, deve essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere stabiliti accordi alternativi (Risoluzione IMO 167(78) del 20 maggio 2004, al punto 6.13).

In conclusione, sarà doveroso seguire con attenzione i possibili strascichi della vicenda giudiziaria de qua: nell’attesa, scruteremo gli orizzonti giuridici e politici per capire in che misura – anche sulla scorta della recente decisione – la prevedibile prassi di individuazione da parte delle autorità di porti distanti dalle zone di soccorso taglierà (ancor più), già nel breve e medio periodo, le gambe alle operazioni di monitoraggio e soccorso effettuate dalle ONG, così bendando gli occhi al mondo intero sulle tragedie del Mediterraneo.

Con la beffa che la dichiarata necessità di una gestione dei flussi in modo organizzato, equo e sostenibile, tale da giustificare POS distanti giorni di navigazione, lungi dal fungere da cerniera tra mare e terra, creerà inesorabilmente squarci e alimenterà voragini, a maggior ragione se le motivazioni del soccorso in mare e dell’accoglienza continueranno ad essere rubricate – come la sentenza non manca di ripetere – quali questioni di ordine pubblico e sicurezza.

Nato nel 1977, originario di Napoli, a Ginevra dal 2007, avvocato abilitato in Italia e Svizzera, con specializzazione post-laurea in diritto dell’Unione Europea e dei Trasporti, esercita la professione forense dopo anni di direzione degli affari legali di una multinazionale nel settore marittimo.

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