L’addio di Caselli, una vita in toga

20 Dic 2013

caselliQuarantasei anni di magistratura. In prima linea. Contro terrorismo, mafia, corruzione. Il procuratore Gian Carlo Caselli (74 anni) va in pensione. Sul futuro dei magistrati lancia l’allarme: «Temo crescerà la tendenza a chiudersi in spazi burocratici». «Come mi sento? Me ne vado convinto di aver lavorato tanto e bene, tra successi e soddisfazioni accompagnate da altrettante sofferenze e angosce. Il bilancio complessivo penso sia positivo, nessun rimpianto. Però avverto già un po’ di nostalgia». Nel suo ufficio al settimo piano del palazzo di giustizia, il procuratore Gian Carlo Caselli non ha ancora riempito gli scatoloni. Continua a mettere firme su atti e provvedimenti, ma tra una settimana lascia. Va in pensione a 74 anni e mezzo d’età, quarantasei di magistratura. Vissuti in prima linea come pochi altri, forse nessuno, da un’emergenza all’altra — terrorismo, mafia, corruzione —, passando per incarichi istituzionali di rilievo: Csm, Direzione delle carceri, Eurojust. La storia dell’Italia più drammatica e misteriosa attraversata con la toga addosso, a inquisire e processare i nomi noti o sconosciuti di cosche e bande armate, fino a quelli più altisonanti della politica e del potere. Dal 28 dicembre, basta.
«Insieme ai colleghi che mi sono stati accanto in questi decenni — racconta Caselli al tavolo di lavoro, sotto qualche foto e un crocefisso in stile campesino — ci siamo trovati ad affrontare problemi ben più ampi del fascicolo processuale che li conteneva, perché dietro c’erano realtà e fenomeni molto più vasti. Con la preoccupazione costante di fare le scelte giuste, perché sbagliando le conseguenze non si sarebbero fermate al singolo procedimento». Preoccupazioni anche per la sicurezza personale: quarant’anni di vita blindata, dai primi Settanta per via delle indagini sui proto-brigatisti fino alle ultime intimidazioni per le inchieste sulle frange violente dei No Tav, passando per Cosa nostra in Sicilia e la ‘ndrangheta in Piemonte. «Io non ho mai chiesto niente sugli attentati sventati — racconta il procuratore —. Ma una sera mi portarono via dall’appartamento palermitano in cui vivevo per rinchiudermi in una struttura dell’aeroporto militare; solo molto tempo dopo il pentito Spatuzza parlò di un missile preparato per me . Un’altra volta, sotto Natale, per farmi rientrare a Torino dovetti attraversare mezza Italia su furgoni camuffati . La paura c’è stata, sarebbe sciocco negarlo, ma vale quel che diceva Borsellino: l’importante è avere il coraggio per superarla».
Inevitabile, su questi ricordi, un pensiero per chi non c’è più, magistrati ed investigatori assassinati da terroristi e mafiosi: «Emilio Alessandrini e Guido Galli morirono al posto di chi come me aveva la scorta, e così il maresciallo Berardi o il commissario Esposito. E poi il procuratore Bruno Caccia, il prefetto dalla Chiesa…». La voce di Caselli si abbassa per un momento: «… gli siamo debitori della vita. Anche per questo, dopo le stragi del 1992 sentii il dovere di fare domanda per la Procura di Palermo». Altra pausa. «Tra i momenti di maggiore soddisfazione ci sono le confessioni di Patrizio Peci che ci rivelò nomi e e nascondigli delle Br, e di Santino Di Matteo che ammise la strage di Capaci. Episodi esaltanti turbati dagli omicidi del fratello di Peci e del figlio di Di Matteo, vendette trasversali orribili e tremende, di cui ho sentito tutto il peso».
Qualche tempo dopo, in una delle pause tra un incarico e l’altro, lavorando al gruppo Abele di don Ciotti il magistrato si trovò a frequentare le stesse stanze di due ex terroristi responsabili di alcuni di quegli omicidi, tornati in libertà: «Ci trattammo con grande freddezza. Sinceramente non so se fosse giusto, ho dovuto convincermi della legittimità di quella situazione, e accettarla. È uno dei miracoli di don Luigi». Quell’incontro indesiderato fu possibile perché il terrorismo fu sconfitto. «Ma dopo tante incertezze, ambiguità e imbarazzi iniziali; ci vollero le violenze del ‘77 e poi l’omicidio Moro per convincere tutti», ammonisce Caselli. La mafia invece? «Lì la storia è più complessa, perché le collusioni sono molto più profonde e per la politica e l’economia è più complicato tirarsi fuori e affiancare con decisione il lavoro della magistratura». Ora i ricordi si fanno più amari e taglienti: «A Palermo cominciammo a indagare sulla mafia militare e sui rapporti con la politica, grazie ai contribuiti dei nuovi pentiti e dei vecchi che prima delle stragi avevano taciuto. Finché arrestammo i boss con la coppola o i latitanti andò tutto bene, ma quando aprimmo il capitolo delle relazioni con il potere partì la rivolta».
Sta parlando dell’inchiesta su Giulio Andreotti? «No, dell’arresto del presidente della provincia Musotto. Era il 1995, e prima ancora che fossero noti gli elementi d’accusa ci fu una manifestazione di protesta sulla scalinata del palazzo di giustizia non molto diversa da quella più recente organizzata dal Pdl al tribunale di Milano, in appoggio all’imputato Berlusconi. Non ci hanno mai fermato, ma la strada s’è fatta sempre più in salita». Musotto però fu assolto. «Certo — ribatte Caselli —, mentre suo fratello fu condannato e l’accusa principale era la stessa. Io rispetto le sentenze, ci mancherebbe, ma mi colpì la reazione scattata senza conoscere nulla delle motivazioni dell’arresto».
Al termine di un impegno tanto intenso è ovvio celebrare i successi, ma ci sono state anche le delusioni e le sconfitte. «Quello che brucia di più non sono le assoluzioni dopo le richieste di condanna, perché al di là delle strumentalizzazioni fanno parte della fisiologia del processo. Le amarezze maggiori riguardano episodi come l’evasione di Curcio nel ‘75; la mancata perquisizione del covo di Riina nel ‘93; il suicidio del giudice Lombardini del ‘98 al termine dell’interrogatorio condotto da me, preso a pretesto per una vergognosa campagna di stampa; le polemiche sul doveroso esercizio dell’azione penale rispetto a violenze nell’ambito della protesta No Tav fatte passare per tutt’altro. E una legge contra personam varata per impedirmi di concorrere alla Procura nazionale antimafia: un primato mondiale del quale oggi vado orgoglioso».
Mai venuto un dubbio di aver sbagliato qualcosa? Caselli riflette: «Dubbi sì, ma la risposta è no». E la magistratura nel suo complesso? «Nemmeno. In generale credo abbia esercitato correttamente il controllo di legalità, al quale la politica di qualsiasi colore mostra una certa insofferenza. I ritornelli sui complotti politico-giudiziari servono solo a creare alibi per chi non ha saputo o voluto esercitare il primato della politica. Il vero problema degli ultimi quarant’anni è che per fronte alle varie emergenze la politica s’è sempre affidata alla magistratura, delegando ogni risposta e rinunciando a quelle che le competevano, salvo poi attaccarla quando arrivava a certe inevitabili conseguenze. È successo col terrorismo, con la mafia, con la corruzione, e c’è il rischio che si ripeta con le proteste di piazza attuali. Ci sono problemi che richiedono interventi politici oltre che penali, se non arrivano si può andare incontro a rischi gravissimi».
Di esempi Caselli può pescarne mille nella sua storia di inquirente: «Con le responsabilità dimostrate di Andreotti e Dell’Utri, due nomi importantissimi della politica e dell’imprenditoria che si fa politica, c’era la possibilità di riflettere su come s’è formato il consenso ed è stato gestito il potere nel nostro Paese. Invece no, silenzio totale, salvo mentire spudoratamente su inesistenti assoluzioni o persecuzioni. Ma se non si parte da quei rapporti tra mafia e politica, come si può ragionare di trattativa?». A proposito, secondo i colleghi del procuratore il «patto occulto» fu siglato mentre lui sbarcava a Palermo. «Io non ho mai avvertito nulla — commenta Caselli —. E a costo di sembrare un ingenuo mi sono sempre fidato di chi ha lavorato con me. Compresi gli investigatori coinvolti nella vicenda del covo di Riina, o ora per la trattativa. Adesso però c’è un processo di cui bisogna attendere l’esito, nel quale i pm di Palermo stanno dimostrando coraggio e spirito di servizio. Meritano rispetto».
Resterebbero tanti altri ricordi e considerazioni su persone vicine e lontane, amici, mai amici e non più amici. E resta una preoccupazione sul futuro della magistratura italiana, da parte di un quasi ex magistrato che ha contribuito a scriverne la storia: «Con tutti i difetti e le opacità che pure ci sono state, e con un sistema correntizio che forse ha assunto troppo peso nell’autogoverno, la valutazione complessiva del suo ruolo non può non essere positiva. Ma oggi vedo il rischio di una magistratura spaccata: da un lato chi intende proseguire nel rispetto delle leggi e dei doveri imposti dall’esercizio dell’azione penale; dall’altro chi subisce la tentazione di rinchiudersi in uno spazio meno rischioso e più burocratico, stanco delle continue polemiche e aggressioni degli ultimi anni. Temo che questa seconda tendenza possa crescere, e non sarebbe un bene per il Paese».

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