Restituire al popolo la sua sovranità cambiando la legge elettorale.  L´intento è nobile e positivo, anche se francamente eccessivo. Definire  che cosa sia propriamente la sovranità popolare, in sistemi in cui le  decisioni importanti attinenti all´economia, alla politica e alla vita  sociale appartengono a gruppi ristretti (e lasciamo da parte la  questione se ciò sia o non sia un portato inevitabile delle società  attuali) e il ruolo delle masse popolari è in misura prevalente – pur  con lodevoli eccezioni come quelle rappresentate da noi ad esempio delle  «primarie» – di assistere dagli schermi televisivi ai dibattiti tra i  decisori della politica e dell´economia, è un´impresa davvero ardua. Ciò  nonostante, la legittimazione essenzialmente passiva che i cittadini  sono chiamati periodicamente a dare ai partiti e agli individui che  competono per il loro consenso presenta pur sempre diversi gradi di  passività. Questa può manifestarsi nel semplice prendere o lasciare  quanto confezionato dalle oligarchie dei partiti oppure nello stabilire  dei limiti al diktat; limiti che consistono nel recuperare margini di  scelta rispetto ai candidati proposti. Esempio puro del primo caso è  quanto disposto dalla legge elettorale vigente, già definita «una  porcata» da chi la fece approvare, ma che ora Bossi e Berlusconi  considerano ottima e non intendono cambiare; esempio del secondo è una  diversa legge, ora richiesta con forza da Bersani e dagli altri leader  dell´opposizione.
Bersani ha dunque chiamato a raccolta le varie  componenti dell´opposizione per porre fine al berlusconismo e far  approvare dal Parlamento una riforma elettorale. Ma – ecco  l´interrogativo – secondo quali modelli? Ritorno al Mattarellum,  adozione dell´uninominale a un solo o a doppio turno, sistema tedesco  proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento?
Due ci paiono le  considerazioni essenziali da farsi. La prima riguarda la netta  superiorità che acquisisce la parte che si presenti con una proposta  univoca. Se all´interno delle opposizioni la proposta di riforma – che  naturalmente a seconda del tipo ha differenti implicazioni di grande  importanza sulla formazione degli schieramenti, delle maggioranze e del  governo – dovesse provocare non risolti contrasti, la conseguenza  sarebbe il complessivo indebolimento della battaglia comune. La seconda è  che la campagna per la riforma abbisogna dell´energico sostegno  all´azione condotta dai partiti degli elettori che si sentono umiliati  dalla «legge porcata» e di una loro vigorosa mobilitazione. Gli umiliati  e persino furibondi tutto possono sopportare meno che lo spettacolo  offerto da uno scontro di modelli il quale comunichi la deleteria  impressione che, mentre Bossi e Berlusconi restano fermi e coerenti  nella difesa dell´esistente, dall´altro versante si sviluppano diatribe  inconcludenti.
Il rischio che l´astensionismo elettorale, alimentato  da correnti qualunquistiche che speculino sulla diffusa «stanchezza per  la politica», cresca pericolosamente non va sottovalutato; e non va  sottovalutato anzitutto dall´opposizione. I coriacei sostenitori  dell´attuale tandem di potere costituiscono un corpo ostentatamente  insensibile ai guasti portati alle istituzioni, alla Costituzione, alle  prevaricazioni nei confronti della legalità e dei diritti degli  elettori. È principalmente nel centrosinistra che stanno gli offesi, i  disgustati, i disorientati e anche gli stanchi. È tra questi che – in  assenza della capacità dei partiti che invocano il cambiamento di saper  non solo aprire un fronte di protesta ma anche offrire soluzioni  efficaci stabilendo un comun denominatore riformatore e mettendo in  opera tutto il possibile per modificare la legge elettorale – può  crescere la rivolta dei delusi inducendoli a non recarsi alle urne o a  deporre scheda bianca.
È ben chiaro che la scelta di una legge  elettorale o di un´altra ha dirette conseguenze anche sulla cruciale  questione del bipolarismo o del multipolarismo. La situazione dei  partiti italiani è tale da aver ormai dato una risposta assai  difficilmente contestabile circa l´assenza nel nostro paese di  condizioni che consentano di far poggiare il bipolarismo sul  bipartitismo. Sennonché è risultato altresì vano finora il tentativo di  creare un bipolarismo basato su due coalizioni stabili. Da un lato è  entrato in una crisi organica, che non è ancora dato capire quali esiti  sia destinata a produrre ma palesemente in pieno svolgimento, lo  schieramento di centrodestra; dall´altro lo schieramento formato da Pd,  Idv, Sinistra vendoliana e altre componenti minori, è tenuto insieme da  ciò che nega ma è poco unito o decisamente diviso nelle strategie da  seguire e nelle proposte di leadership; inoltre tra i due si frappone un  centro dalle molte ambizioni ma dal volto incerto circa le forze che  possano in esso raggrupparsi.
Se la battaglia contro la Lega e il  Pdl dei berlusconiani dovesse essere condotta senza aver compiuto –  scontato l´inevitabile e giusto lasso di tempo per la discussione –  scelte condivise relativamente al modello di riforma elettorale, al nodo  del bipolarismo o tripolarismo e all´indicazione dei leader, allora  essa risulterebbe gravemente indebolita, alimentando la stanchezza e la  sfiducia di cui sopra parlavo. Inutile aggiungere che la responsabilità  prima dell´agire con determinazione e limpidezza spetta al Pd, chiamato  ora più che mai a dare prova di sé, a partire dal mettere ordine nelle  controversie quali quelle, e non sono le sole, che oppongono la Bindi a  Veltroni e il giovane Renzi ai «vecchi» che questi vorrebbe vedere in  pensione una volta per tutte.
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